Il calcio spiegato a una bambina di 7 anni

“Papà, sabato con la classe andiamo a vedere la partita di… di una squadra di calcio. Nello stadio grosso.”
“E perché mai una roba del genere?”
“Non lo so. Abbiamo vinto un premio.”

Considerando che la squadra in questione vivacchia in serie C da decenni (esiste ancora la serie C?) e che a casa mia non si parla di calcio se non quando apro l’armadio e il vecchio borsone con scarpe, guanti da portiere e magliette mi cade addosso (dovrò sistemarlo, prima o poi), mi sembra strano tutto questo interesse della pargola per l’evento di cui sopra.

“Sei sicura di volerci andare?”
“Certo!”
“Ma… come mai?”
“Per vedere i miei amici, a me non interessa il calcio.”
“Ah ecco.”

In ogni caso decido che prima di avventurarsi in uno stadio italiano di serie C è necessario premunirsi imparando le basi di questo sport. Organizzo una lezione con tanto di video di analisi tattica, meeting degli arbitri a Coverciano e dibattito sul fuorigioco passivo e sulla congruità dei movimenti delle braccia del difendente sui cross dal fondo.

Lascio perdere dopo attenta riflessione. Penso che guardare dieci minuti di una qualunque partita possa essere sufficiente per capire le regole e i principi basilari. Il passo successivo sarà insegnare qualche parolaccia in più rispetto a quelle che già conosce.

“Vedi, ci sono i bianchi e i rossi…”
“Non sono azzurri e neri?”
“Sono a strisce, va bene… ci sono gli azzurri e i neri.”
“A strisce”
“A strisce. Sì. Sono undici di qua e undici di là. Tutti a strisce. Ma possono essere anche a quadrati o come vogliono. Però ce ne sono due con la maglia diversa.”
“Quello che sta sempre da solo nel rettangolo grande?”
“Proprio lui” – tiro su col naso e mi asciugo una lacrima pensando alla solitudine del portiere che mi ha afflitto per anni in gioventù – “lui deve difendere la porta”.
“Lo so cos’è la porta. Ma il rettangolone bianco a cosa serve?”
“Lì dentro il portiere è l’unico che può usare le mani.”
“Gli altri no?”
“No no, è vietatissimo.”
“Sarebbe più comodo prendere il pallone con le mani.”
“Ma si chiama calcio perché si danno i calci, no?”
“Altrimenti non si chiamava calcio. Bravo papà.”
“Grazie. Sarà felice il nonno di avermi pagato l’università. Ma ora torna a guardare la partita. Sai che le squadre devono fare gol, giusto?”
“Sì. Devono mandare il pallone dentro la porta?”
“Esatto. E l’altra squadra non vuole. Il portiere è proprio l’ultimo ultimissimo prima di fare gol.”
“I bianchi tirano il pallone contro il portiere dei rossi?”
“Esatto.”
“Non potrebbero scambiarsi il portiere? Sarebbe più facile. Tanto il portiere ha una maglia diversa, mica deve cambiarsela.”
“Sarebbe decisamente troppo facile. E comunque il portiere ha solo la maglia diversa dagli altri, ma fa parte della stessa squadra.” Mi asciugo un’altra lacrimuccia.

La partita procede. C’è un fallo a centrocampo. La pargola salta sul divano.
“Oh! Ma gli ha dato un calcio!”
“Beh, sì, succede…”
“Non lo ha fatto apposta, vero?”
“Mmmm…” – guardo il replay e noto chiaramente la dinamica dell’azione. Era un bel calcione da dietro, di quelli che servono a far subito capire chi è che comanda in quella parte del campo – “credo di no, voleva prendere la palla…”
“E l’altro l’ha tolta.”
“Brava.”
“Quindi è colpa di quello che ha preso il calcio. Se togli la palla mentre l’altro la deve prendere, è pericoloso.”
Concetto perfettamente esposto. Non posso far altro che approvare.


Un lancio lungo manda una attaccante solo davanti al portiere, questi esce basso e lo anticipa.
“Però se il portiere si butta con la testa fra i piedi di quell’altro, non è un po’ pericoloso?”
“Bisogna stare attenti.”
“Ma se gli dava un calcio io non ero contenta. Al portiere non si possono mica dare i calci come agli altri.”
Annuisco serio e torna a farmi male il punto in cui ho ancora il segno di una tacchettata di 20 anni fa.

La palla finisce a uno dei soliti brasiliani o roba del genere. Lo sfiorano e lui si lancia a terra in un bagno di lacrime e urla di dolore. La pargola interviene prontamente:
“Ah, possono anche buttarsi in terra anche se non sono portieri?”
“Ecco… vedi… lo fanno perché così l’arbitro fischia il fallo.”
“E l’arbitro non si arrabbia se dicono le bugie?”
“Quando se ne accorge, sì.”
Arrossisce. “È come quando quella volta ti ho detto che avevo mangiato tutta la pasta e non era vero?”
Assumo un’espressione serissima. “È proprio la stessa cosa.”
“Il portiere è l’unico che si butta e non dice le bugie, allora.”
Sto per piangere.

Siamo al ventesimo minuto. La piccola dà segni di impazienza.
“Senti, ma quand’è che fanno un punto?”
“Ehhh, non è mica facile… ci provano.”

Uno dei bianchi, o azzurri, o a strisce, tira in porta. Il portiere si stende in tuffo e mette in angolo.
“Hai visto? Ha provato a fare gol.”
“Ho capito. Quindi facevi il portiere perché ti piaceva buttarti in terra? Anche quando c’era il fango, vero?”
Ho finito le lacrime. Provo a mantenere l’espressione seria. “Sì.”

“Allora, quando lo fanno un punto?”
“Non lo so. Ci provano.”
“Fa schifo questa partita. Il calcio è sempre così?”
“Più o meno…”
“Anche il calcio non mi piace. I portieri però ci sono sempre?”
“Sì.”
“Allora del calcio mi piace solo il portiere che si butta in terra.”
Sono commosso. “Anche a me.”

Lascia un commento