La Cina, quattro anni dopo

Dall’ultimo mio viaggio in Cina sono passati quattro anni, era il 2019 e il mondo faceva abbastanza schifo anche se non pensavamo potesse peggiorare ancora.

La Cina era una paese complicato per molti versi, i cinesi erano chiusi ma poi, alla fine, riuscivi a portarli dalla tua parte. Per andare in Cina bastava un visto turistico che ti rilasciavano in quindici giorni compilando a caso un inutile modulo infinito. Tutto regolare, insomma.

Poi c’è stato quel periodo che chiameremo “covid” per non usare parole offensive nei confronti di chi lo ha gestito a livello globale.

Ma ancora peggio nella gestione hanno fatto in Cina. E se pure i cinesi sono incazzati neri su come sono stati gestiti questi 4 anni, allora vuol dire che qualcuno l’ha combinata davvero grossa.

Dopo quattro anni, finalmente, la Cina riapre all’estero. Cosa sarà cambiato?

Intanto serve un visto business, solo quello, non si entra più come turisti. Devi avere qualche cinese che ti invita a entrare, non ci sono alternative (certo, essere un diplomatico potrebbe essere l’alternativa ma, ecco, i diplomatici hanno l’unico problema di non fare capire quanto sono parassiti, non hanno problemi di visti di ingresso).

Ottenuto il visto business, ora c’è da lasciare le impronte digitali al consolato. Altri quindici giorni per l’appuntamento, due ore di macchina per una pratica di cinque minuti. Utilità? Nessuna, come tutte le pratiche consolari e diplomatiche.

Si può partire.

All’arrivo scopro che è necessario compilare un questionario per ottenere un QR da mostrare alla dogana. Nessuno mi aveva detto niente prima di partire, nessuno mi aveva detto niente sull’aereo. Cerco un posto in cui compilare il questionario che pensavo fosse come quei foglietti inutili in cui dichiari il tuo indirizzo e il motivo della visita. E invece il QR si può ottenere SOLO usando Weixin (Wechat). Ma per farlo bisogna avere la linea internet sul cellulare e, ovviamente, bisogna avere un cellulare.

Non è contemplato entrare in Cina senza un cellulare e una linea dati funzionante.

Cerco la wifi dell’aeroporto, mi dicono di prendere la password in una specie di distributore automatico e mi spiegano che basta passarci davanti il mio QR di Weixin. Intanto per il QR di Weixin bisogna avere la linea dati attiva e questo già non ha molto senso; riesco a attivare i dati quanto basta per mostrare il mio  codice. La macchina risponde che va tutto bene e che ora devo “soltanto” mostrare alla telecamera il mio documento per la scansione. Mh, un documento. Non proprio “un” documento, serve la carta di identità cinese. SOLO quella va bene.

Passo. Uso il roaming, l’amministratore delegato se ne farà una ragione.

Nel questionario mi chiedono se ho sintomi influenzali, malattie, lebbra, peste bubbonica. Ma c’è davvero qualcuno che risponde di sì?

Bagagli recuperati, è il momento di chiamare il taxi per andare in albergo.

Ah! Il taxi, uno dei tanti ricordi dei primi viaggi in Cina.

Il taxi non si chiama più con il fischio, con la mano o chiedendo in giro. Il taxi si può solo chiamare con la app DIDI che sta dentro Weixin.
Mi getto in strada e fermo un taxi. Fisicamente.
Sì, mi può accompagnare all’albergo. Ce l’ho fatta.

Per strada c’è una pulizia mai vista. Le auto sono elettriche. TUTTE. Non ci sono più le nuvole di smog che tagliano a metà i palazzi. Certo, con la produzione di qualche miliardo di auto elettriche avranno appestato mezza Africa ma, hey, qui ora si respira.

All’arrivo il tassista mi porge il suo telefono. Io porgo i soldi. Lui scansa i soldi e mi mostra il suo QR. Vuole essere pagato solo tramite Weixin. Offro soldi.
No.
Offro più soldi.
Ancora no.

Mi salva l’inserviente dell’albergo. Paga lui la corsa e io pago lui.

Reception. Mi sento di nuovo un alieno. Facce pallide, occhi sbarrati, risatine. Il mio direttore che mi accompagna mi precede. Io lo lascio fare e pregusto la scena, ho già capito come andrà a finire.

Nessuno nell’albergo parla inglese. Nessuno. Neanche uno, neanche mezza parola. Forse riescono a dire “ok”. Il direttore, molto orgoglioso, non vuole che io mi intrometta e finisce a comunicare a colpi di traduttore che, per fortuna, funziona anche offline.

Gli viene fame, c’è un distributore automatico di schifezze. Cerchiamo di prendere delle patatine ma una ragazza che passa di lì mi spiega che si può pagare solo con Alipay e tramite riconoscimento facciale. Ovviamente previa presentazione di un documento di identità. Cinese.
Faccio pagare lei che poi, riluttante, accetta i contanti.

La colazione? Si paga con il QR.

Il taxi il giorno dopo? Stessa storia ma qui per fortuna l’albergo riesce ad aiutarci (parlando solo cinese, ovviamente).

Sarà il caso di agganciare la carta di credito a questo benedetto Weixin, no?

Sì, sarà il caso, ma non è possibile. Weixin accetta solo carte di credito cinesi.
E allora mi faccio mandare un numero di carta di credito cinese da usare. Ok, la carta funziona, ma per confermare il tutto, serve un documento. Cinese.

Recupero anche quello e… sono nel “sistema”.

Da quel momento tutto è possibile. Non si può comprare nemmeno una caramella senza QR e senza QR non si va da nessuna parte. Non puoi nemmeno ordinare da mangiare al ristorante e devi sempre avere un telefono con linea dati attiva. L’amministratore avrà un mancamento quando leggerà la tariffa roaming del mio telefono aziendale.

Dopo quattro anni il messaggio è chiaro: non sei benvenuto in Cina.

La tecnologia è avanti di dieci anni rispetto a noi, le città sono più pulite (povera Africa), più verdi e sono state costruite molte più strade, linee della metropolitana, treni.
I pagamenti in effetti sono comodi e veloci per chi ama questo genere di transazione, potrebbero essere anche molto utili per evitare di andare in giro con banconote di cui non si conosce mai al volo il valore.

Tutto il resto è tornato indietro di… dieci? quindici? venti anni?

Se già prima avevano difficoltà a parlare inglese, adesso non lo parlano proprio per niente. Zero. Neanche una parola nonostante ci mettano pure l’impegno per darti una mano. Per strada fino a quattro anni fa qualche ardimentoso bambino mi salutava con “hello” e adesso i bambini più piccoli si nascondono dietro le gambe della mamma.

Stranieri non se ne vedono più e i pochi che sono qui stanno lavorando nel commercio e, soprattutto, viaggiano con un cinese al fianco. Altrimenti non possono nemmeno ordinare da mangiare.
Quando in preda all’isteria chiedo come dovrei fare a chiamare un taxi senza sto cazzo di Weixin, i cinesi rispondono “viaggia con un cinese, no?”. Cinesi come app, cinesi portatili e forse iniziano ad avere senso tutte le barzellette sui cinesi in una Cinquecento. Per fortuna non bisogna portarsi dietro un cinese per ogni app, ne basta uno multiuso.

I cinesi provano a essere ospitali come sono sempre stati, c’è sempre il tè a fiumi, l’invito a cena, l’ostentazione ai limiti del pacchiano che tanto fanno “Cina”. Ma proprio non riescono a far diventare ospitale un paese che non vuole essere ospitale. In Cina non siamo benvenuti, la Cina di noi se ne frega, la Cina ormai è per i cinesi.

La Cina ci sta presentando il conto, non solo a noi italiani ma anche a tutto il resto del mondo.
Non importa che abbiano gestito il covid nel peggior modo possibile, ai limiti della pagliacciata e dell’isteria di un delirio di onnipotenza di qualche minchione al comando, ce la stanno facendo pagare e si stanno distaccando dal resto del mondo.
E non si fermeranno qui.

2 commenti su “La Cina, quattro anni dopo”

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