La meccanica dei fluidi nello spazio tempo sul pedalò

Mio malgrado mi trovo in uno di quei posti infernali che si chiamano “spiaggia italiana d’estate”. Mentre cerco l’ultimo angolo di ombra sotto un ombrellone non mio, la pargola, che probabilmente è dotata di un condizionatore interno che non le fa sentire il caldo, decide che è il momento giusto per costringermi a prendere un pedalò e andare al largo a fare il bagno.

Il pedalò è gratis, per cui non ho scuse di nessun tipo e mi tocca mettermi alla guida di questa strana barca. Mi fido poco di un oggetto che ha il nome declinato al passato remoto.

Il pedalò imbarca da subito acqua, faccio cenno al bagnino che mi saluta sorridente. A gesti cerco di spiegargli che tra poco affonderemo. Lui mi saluta. Ricambio con sguardo fiero alla bandiera e mano sul cuore giurando di morire per il Bangladesh, o qualunque sia la nazione con quella bandiera che non si capisce cosa stia lì a fare proprio di fianco al bagnino.

Mentre pedalo verso l’ignoto la pargola passa da una parte all’altra dell’imbarcazione aumentando l’entrata di acqua dalle falle sparse un po’ per tutto lo scafo e portando il pedalò sull’orlo del ribaltamento.

Lei mi indica una boa. Quella è la nostra destinazione. Getto un ultimo sguardo alla bandiera del Gibuti di fianco al bagnino, o qualunque sia quella nazione con quella bandiera, e pedalo in direzione boa.
C’è anche la bandiera blu che segnala quanto sia pulito il mare.
Chissà quanto è costato metterla in una spiaggia a fianco di un rigagnolo chiamato torrente Parmignola.

Da reminiscenze del liceo ripesco l’unica lezione di fisica fatta in laboratorio. Naturalmente in cinque anni ci hanno portati una sola volta nel laboratorio di fisica, non sia mai che una lezione del liceo scientifico corra il rischio di diventare minimamente interessante con un laboratorio di fisica.

In quella unica lezione sicuramente avremmo fatto qualcosa di utile per questa situazione, no?

C’era della roba che galleggiava e la professoressa faceva delle onde con un coso ammollo nella vaschetta. Ecco, le onde. Arrivano onde da ogni parte e quindi le equazioni dell’altezza d’onda non servono a niente, qui le onde arrivano da destra, sinistra e quando la pargola si muove con la sua delicatezza, le onde arrivano anche da sopra e da sotto. Il laboratorio proponeva un esperimento troppo “ideale”.

Forse Archimede potrebbe essere d’aiuto.
Ma senza specchi ustori non so come farei a sconfiggere quell’innocuo pattino alla mia destra. Forse non sarebbe nemmeno poi così utile affondare un’altra barca. Ecco, tentare di affondare loro non eviterebbe a me di affondare.
Questo lo dovrebbero imparare in tanti come regola di vita generale.

Le onde ci spostano in tutte le direzioni, intervengo sul timone e imparo due cose importantissime.

1 – Quando giri il timone a destra, curvi a sinistra

2 – Questo timone è rotto

Per il punto numero uno mi invento qualcosa per adattarmi velocemente e mi trovo a sforzare il mio cervello ad andare contro ogni sua logica. Quando il cervello vuole andare a destra, io lo derido e giro dall’altra parte. Alla fine andiamo nella direzione giusta. Un po’ come quando hai un superiore scemo, fai come ti pare, ottieni il risultato e poi gli fai i complimenti per la sua direzione.

In breve tempo mi trovo a maneggiare con destrezza l’arte della sopravvivenza in un’azienda tossica. Ancora una volta il braccio fa i complimenti al cervello per questa grande idea.

Il punto numero due è un po’ più complicato. Il timone è rotto, quindi è inutile che io giri di qui o di là, il timone si muove solo quando gli pare e trasforma la guida dell’imbarcazione in una lotteria. Direi più un roulette russa in cui si rischia di finire sugli scogli.

Quindi io provo a girare, il pedalò va avanti, giro di nuovo, il pedalò gira ma dall’altra parte. Colpisco il timone e il pedalò va nella direzione che volevo. Solo che curva un po’ troppo e rischiamo di girarci.

Una vite che tiene il comando del timone mi appare allentata in modo preoccupante.

Riesco a raggiungere una certa stabilità del mezzo, almeno finché la pargola sta ferma o sta in acqua, perché appena sale e inizia a muoversi con la sua proverbiale delicatezza, il pedalò torna a imbarcare acqua, a girare, a saltare e ogni onda presa di punta lo fa saltare per aria con conseguente atterraggio degno di un lottatore di sumo alle olimpiadi di tuffi.

Tutte queste abilità acquisite in pochi minuti mi fanno già immaginare a quando guiderò il mio galeone di pirati al largo delle coste della Svizzera, pronto ad assaltare i bastimenti carichi di Mercedes e soldi in nero diretti alle cassette di sicurezza di Zurigo.

Rientro nel mio corpo dopo questo film mentale e mi accorgo che manca ancora qualcosa per padroneggiare l’arte della pirateria. Certo, mi manca un pappagallo sulla spalla, almeno quattro cannoni, un rostro e l’impunità garantita dall’accondiscendenza dei nostri governi verso le organizzazioni terroristiche (senza di loro a chi le venderemmo tutte le nostre armi made in Italy?), questi sono solo piccoli dettagli, ciò che mi manca è una risposta rapida della barca ai miei comandi, seppur sbagliati.

Prendo a pugni il timone, riesco a farlo girare, la barca non gira. Poi, dopo un po’, inizia a girare, ma siccome è passato “un po’”, si trova a girare nel punto sbagliato.

Ed è così che mi trovo a dover imparare a “pensare quadrimensionalmente”.

Ogni azione effettuata ora avrà conseguenze non nell’immediato, ma nel futuro. Bisogna prevedere dove sarà la barca quando arriverà l’effetto dell’azione sul timone. Quindi se cambio qualcosa “qui e ora”, non cambierò niente nel “qui e ora”, il pedalò continuerà ad andare per la sua strada, o per la sua acqua. Cambiando qualcosa nel “qui e ora” vedrò gli effetti nel “laggiù e dopo” e andrà ad interferire con il continuum spazio temporale di un pedalò che voleva andarsene per la sua strada trascinato dalle onde.

Come biasimare un pedalò che voleva farsi gli affari suoi standosene sdraiato sulla spiaggia?

Inizio a elaborare complessi calcoli basati su stime di vento, corrente e velocità di pedalata per prendere una decisione prima di doverla prendere. Perché se decido di curvare quando voglio curvare, ormai sarà troppo tardi.

Padroneggio lo spazio tempo come se fossi alla guida dell’Enterprise e arrivo dritto alla boa, destinazione che ci eravamo prefissati.

Adesso è ora di tornare indietro e secondo i miei calcoli, dopo aver girato il pedalò in qualche modo sfruttando qualche fenomeno fisico sconosciuto, dovrei ricominciare da capo la mia interazione con lo spazio tempo.

Ce la farò, in qualche modo voglio abbandonare questo posto assolato.

Giro il pedalò aggrappandomi alla boa e tirandola verso di me e mi rendo conto che la corrente ci spinge a riva. Non pedalo, non manovro. Non calcolo.
Stendo le gambe dolenti e lascio che il mare ci porti dove siamo partiti.

Le onde ci riportano fin dove si tocca. Scendo e spingo il pedalò fino a riva. Ci penserà il bagnino a issarlo fino oltre la battigia.

Vanno bene i calcoli, va bene studiare tutta la situazione e tutte le variabili. Ma a volte è proprio meglio non fare niente, è meglio avere lo spazio e il tempo per non fare assolutamente niente, i risultati arriveranno da soli.

Grande Giove!

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