L’acqua calda e i cinesi

Tratto dal libro “Bianco fuori, giallo dentro

Dall’albergo contatto uno dei clienti più importan­ti, Wang.

Dovrei essere abbastanza vicino al suo uffi­cio. Mi risponde che in questo momento è impegna­to, ma che mi manda un suo autista.
In pochi minuti l’autista mi contatta tramite Wei­xin.

Scendo.

L’autista è una ragazza avvolta in un improbabile giubbotto di pelo che ne nasconde metà viso. Ai pie­di indossa scarpe rosse con dieci centimetri di tacco. Non ho idea di come farà a guidare con quella roba.
Entro dentro una Toyota scassata che trema a ogni buco, la portiera cigola.

Realizzo definitivamente che in Cina il codice della strada, la segnaletica, i semafori sono dei sug­gerimenti, non degli obblighi.

Suoniamo e passiamo oltre persino davanti alla segnalazione che ci fa una donna che fa parte della squadra di manutenzione delle strade. Voleva solo evitare che finissimo dentro quell’enorme buco, io non le avrei suonato.

L’azienda del cliente è enorme. Una distesa infini­ta di capannoni traboccanti di lastre lavorate, tre piazza­li ricolmi di blocchi grezzi, telai che segano marmo, macchinari per la lavorazione.
La ditta più grande che ho visto in Italia non è nemmeno la metà di questa.
Wang mi mostra lo stock di blocchi. Ci sono alcu­ne file in cui arrivo a contare cinque blocchi uno so­pra l’altro. In Italia è proibito averne più di due.

I telai sono tutti in funzione, ne conto sette.
«Ma ce ne sono altri quattro dall’altra parte,» mi rassicura Wang come se sette telai fossero pochi.

Uomini e donne, ognuno con un carretto di ferro, trasportano ciascuno una lastra. Sono diretti al repar­to resinatura. Una per una. A mano.
Non hanno guanti, girano in ciabatte mentre fuma­no. Una roba del genere in Italia è da codice penale.
Mi ripeto mentalmente che è meglio che la smetta di fare paragoni pensando alle leggi sulla sicurez­za del lavoro, a tutte le volte in cui ho sudato sotto al caschetto dentro al piazzale della mia azienda e al mal di schiena che mi provocano le scarpe antinfor­tunistica che devo indossare anche se non faccio l’o­peraio.

Alzo gli occhi.

Il muletto non arriva a prendere un blocco in alto, l’operaio sale in piedi sulla forca e si fa portare fino in cima per utilizzare le funi della gru.

Non ci arriva.

Un suo collega gli passa una scala che viene posta sulla forca del muletto e così l’operaio può salire. Sicco­me le sue infradito scivolano, decide che è mol­to più sicuro andarci a piedi nudi.
Lega la fune intorno al blocco e scende.

Non è vero che i cinesi non muoiono mai, è solo che hanno una fortuna incredibile.

Wang mi porta nell’ufficio del padre. Poltrone di pelle, dragoni di onice, marmo e un tavolo da tè sca­vato direttamente in una roccia.
Questa cosa prima o poi buca il solaio.
Scendiamo negli uffici del personale.
Una grande stanza in cui ci sono più divani che scrivanie. Così a prima vista conto trenta persona in­tente a guardare il telefono.

«E questi chi sono?»
«I venditori.»
«Così tanti?»

Da noi un’azienda così se la cava con cinque o sei persone. Gli altri sarebbero commerciali in giro per il mondo, mica in ufficio.
Ma ho l’impressione che il mondo sia già qui, non serve andare fuori per vendere.
Mi siedo su un divano, faccio le presentazioni con una parte dei venditori. Qualcuno prova a parlarmi, ovviamente dopo aver superato lo stupore di uno straniero che parla la loro lingua.

Domanda ricorrente: «quanto guadagni?»
Sono in imbarazzo, di solito sono cose che non si dicono e non si chiedono. Rispondo.
«Tuo padre quanto guadagna?»
Ecco, questa non me l’aspettavo davvero.

Wang mi dice che sono domande che si fanno spesso, è un modo per definire il proprio stato socia­le.
Invento. Non lo so quanto guadagna mio padre.

Iniziano a versarmi il tè. Fiumi di tè. Assaggiamo tutto il loro arsenale di tè che hanno dentro a dei mi­nuscoli e rumorosi frigoriferi. Seguo come sempre tutto il rituale, le tazzine di­sposte sul tavolo, il lavaggio delle foglie, il lavaggio degli strumenti.
Chiedo preventivamente dove si trova il bagno. Ho il sospetto che se continuo a bere così dovrò fare avanti e indietro parecchie volte.

Mi segno tutti i contatti dei venditori, non so cosa ne farò, ma insistono così tanto che mi pare scortese rifiutare.
Wang riappare nella stanza con due sacchi di car­ta. Me li porge.

«Ho visto che ti piace il tè. Ti regalo questi.»
All’interno ci sono almeno tre chili di tè e un set completo di tazzine per fare il rituale. La prendo come un’iniziazione.

Il fumo delle sigarette impregna la stanza, non sono più abituato a sopportarlo anche perché sono riuscito a convincere il mio collega a smetterla di fu­mare in ufficio. Starnutisco.

Una venditrice mi porge un bicchiere. «Se hai il raffreddore, bevi dell’acqua calda.»
«No, grazie. È solo per il fumo di sigaretta.»
Un’altra interviene. «Bevi l’acqua calda così si li­bera il naso.»

Accetto e aggiungo l’acqua ai litri di tè che ho già bevuto.
Wang si alza di scatto. Mi guarda. «Hai fame?»
Non ho fame per niente, sono gonfio di tè e lo sto­maco fa lo stesso rumore di una tanica mezza piena. «Certo. Andiamo.»

Saliamo in macchina. Tiro giù l’aletta parasole per guardarmi nello specchietto. Ho un dolore fastidioso proprio alla base del naso, controllo. Mi sta spuntan­do un piccolo brufolo, non sembra una puntura di in­setto, per fortuna.

Wang mi accende la luce. «Cosa succede?»
«Oh, niente. È solo un piccolo brufoletto qui.»
Annuisce serio. «Bevi dell’acqua calda.»

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