Lǎowài, un pratese in Cina. Diario di un expat da Chinatown all’Estremo Oriente

Mentre cerco spio di nascosto cosa combina la concorrenza mi imbatto nel libro “Laowài, un pratese in Cina. Diario di un expat da Chinatown all’Estremo Oriente“. Devo assolutamente leggerlo per capire se ho scritto boiate nel mio “Bianco fuori, giallo dentro”. So di non averlo fatto, ma un parare esterno da qualcuno che in Cina ci è stato, fa sempre comodo.

Questo non è un romanzo, non c’è una vera e propria storia, è un diario di viaggio in cui sono riportati gli episodi più significativi dell’esperienza dell’autore, finito in Cina per lavoro e senza alcuna reale voglia di andarci se non per… lavoro, appunto.

Prima di tutto è scritto bene. E quando dico “scritto bene” non intendo la grammatica, che do per scontata, intendo da un punto di vista dell’immersione nella vicenda. Per come è scritta ogni frase, per come è descritta ogni vicenda, viviamo insieme all’autore il momento che lui sta descrivendo. Non ci si perde in scene troppo poetiche, anche perché in Cina in mezzo ai cinesi c’è ben poco di poetico, se volete la roba poetica andate in Vietnam o in Tailandia. Se devo trovare un difetto, lo trovo in un paio di capitoli che non ci calano in una vicenda-avventura-disastro ma che si limitano a descrivere paesaggi ed elementi storici. Glieli perdono volentieri a fronte di altri capitoli in cui il panico da Cina, la vera essenza di questo paese, prende il sopravvento.

Dal riuscire a firmare un contratto fino al semplice farsi portare nel posto giusto da un taxi scassato, in Cina può essere un’avventura. Soprattutto se non si parla una parola di cinese e non si è mai nemmeno lontanamente pensato di andare in Cina. MartinoExpress lo ha fatto: è partito senza mai aver studiato il cinese e senza nutrire il minimo interesse per l’Oriente. Ha avuto l’occasione ed è partito.
Tipico esempio del paradosso di Fredkin gestito nel migliore dei modi: l’autore non aveva la minima idea di cosa lo avrebbe aspettato a 10000km di distanza e invece che trascorrere notti insonni a pensarci, è partito ed è andato di persona a vedere, tanto non poteva sapere prima se sarebbe stato meglio o peggio. Chapeau.

Il punto di vista è quello di un alieno sbarcato su un altro pianeta e dopo una vita trascorsa a Prato, città con la Chinatown più grande d’Europa, è più o meno quel che si prova quando si passa tra via Filzi e via Pistoiese, con la differenza che nessuno ti chiede la foto.

L’autore è l’occidentale che va bello tranquillo in Cina convinto che col suo inglese, la sua parlantina il suo “tanto me la cavo” se la caverà, e poi invece scopre che la Cina ti inghiotte, ti tritura e ti sputa senza pensarci due volte. Se non ti adegui, sei morto. Finché non impari a fare “il cinese”, sarai sempre un “lao wai”, poco più di un turista. Se vuoi sopravvivere, meglio calarsi nella parte al più presto.

Il distacco iniziale che ha l’autore nei confronti di questo paese gli permette di scrivere una delle analisi più lucide che abbia mai letto a proposito del comportamento dei cinesi. Quello che per me è sempre stato solo un comportamento diverso dal nostro e a cui mi sarei dovuto adattare per forza di cose, per lui che può vederlo da una certa distanza senza il coinvolgimento emotivo che invece avevo io è questo:

Ecco. Questo è “il cinese”. Il cinese non è cattivo, non è uno stronzo che ti schiaccia per strada, che ti passa davanti in fila, che ti tira una gomitata per prendere una mela sullo scaffale quando ce ne sono altre cento. Non lo fa apposta, il cinese è semplicemente così: non si è nemmeno accorto che ci sei.
I cinesi sono talmente tanti che non hanno tempo di pensare a chi hanno intorno, pensano a ciò che serve loro e tanto basta.

Queste poche frasi mi hanno fatto collegare alcuni fili e capire il perché io appena sbarcato dall’aereo di ritorno dalla Cina abbia sempre rischiato di litigare con qualcuno.
Quando torno in Italia sono più “cattivo”. Sgomito, spingo, sorpasso e mi lancio sugli scaffali come se ci fosse l’ultimo rotolo di carta igienica del mondo. Ho sempre pensato che mi avesse condizionato il traffico, lo smog, il casino e invece il vero motivo è che stavo assorbendo “l’essere cinese in Cina”.

In realtà in Cina non ci sono mai situazioni da apocalisse zombie per cui sia necessario scavalcare, spintonare e passare sopra chiunque. Ogni cosa è perfettamente ordinata e regolamentata, solo che nessuno se ne accorge e… diventa sempre tutto un grandissimo casino.

I disastri li trovi quando è necessaria una minima elasticità mentale che in quel paese proprio non hanno idea di cosa sia. Rischi di trovarti davanti a ottimi professionisti, gente che sa fare tutto del proprio lavoro ma che va in crisi quando il POS non funziona e proponi di saldare la stanza in contanti. Lo so che sul foglio del check in c’è scritto “pagamento con carta”, ma se non funziona, basta cambiare il pagamento e tutto a posto, no? E invece no, in Cina se il documento dice una cosa, quella deve essere.
È qui che si diventa cattivi, si sgomita, si urla e si fanno le facce cattive. E tutto si risolve.

Perché i cinesi faranno sì del grande casino, ma non hanno tempo da perdere e una soluzione in qualche modo la si trova sempre, basta solo avere pazienza… e diventare come loro.

L’autore non lo ammette direttamente, ma alla fine, anche lui, senza Cina ora non ci può più stare. Chissà perché, magari anche lui si è preso la “febbre gialla” come in “Bianco fuori giallo dentro“.

Laowài, un pratese in Cina è un libro interessante, si legge velocemente e dà una buona idea di cosa ci si debba aspettare da questo paese entrandoci da vero, autentico Laowai che non sa una mazza.

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