Lo sci

Dopo le grandissime avventure di alpinismo che mi hanno visto protagonista negli anni passati, decido che è meglio andare a fare un po’ di acclimatamento alle grandi altitudini in vista della prossima avventura.
Sfido così le raccomandazioni del governo italiano e soprattutto quelle di un tizio che va in giro con una piuma sulla testa vestito come un bambino a carnevale, e mentre entrambi sono confusi nel capire quello che vorrebbero fare, approdo sulle Alpi già fornito di skipass, prenotazione di albergo, sci e scarponi.

Le altitudini estreme si fanno già sentire, iperventilo qualche minuto e sono pronto.

Ritiro gli sci in un negozio in cui non ci sono in realtà molte persone, solo che tutte indossano la giacca a vento e metà clientela barcolla indossando gli scarponi da sci. Un tripudio di spallate, scivoloni, tirare su uno che è scivolato, non scivolare, raccogliere gli sci, perdere i bastoncini, riprendere i bastoncini e perdere gli sci.

Il ragazzo mi consegna i miei sci Atomic rossi. “Vanno bene questi?”
“Mah, dimmi tu. Vanno dritti?” Non mi viene un altra domanda più intelligente di questa.
“Se ci sai andare, non ci sono problemi.”
Ovviamente, punto nell’orgoglio di sciatore, afferro gli sci con arroganza. “Vanno benissimo.”

Esco dal negozio con i miei Atomic rossi professionali e punto con lo sguardo la cima della montagna dove mi aspetta la pista nera. Datemi solo il tempo di togliere la ruggine di dosso, nel ’94 ho vinto la gara di fine corso a Montecampione, non ci vorrà molto per tornare ai fasti di un tempo e tornare il ghepardo delle nevi di quegli anni.

Mi accodo alla fila per la seggiovia. Faccio appena in tempo a compiacermi del fatto che non ci sia nessuno quando all’improvviso una nuvola di neve si alza dal piazzale di arrivo, la terra trema, una valanga in orizzontale sta per travolgermi.
In pochi secondi sono circondato dai bambini che fanno i corsi di sci e che partono tutti insieme alla stessa ora e nello stesso, esatto, minuto.
Tutto ovviamente come raccomandato dal tizio con la piuma in testa. E in effetti, non c’è motivo di seguire le indicazioni di un bimbo che gioca agli indiani vestito da marines.

Avanziamo a goffi passetti verso il tornello, un bambino infila i suoi sci di fianco ai miei e zampetta più velocemente facendo finta di niente. Piazzo il mio bastoncino in mezzo alle sue punte e attendo. Un piccolo naso sbatte contro il mio gomito , il piccolo gemito che ne consegue mi fa sospirare di fronte a tanta ingenuità e procedo oltre.

La seggiovia è una poltrona mobile che ti colpisce dietro le ginocchia e te le piega in modo da farti sedere. Bisogna poi abbassare la sbarra di sicurezza e appoggiare gli sci sulla pedana. La pedana mi colpisce sullo stinco, appoggio il piede sinistro mentre il destro resta a penzoloni, inarco la schiena per sfilarmi via da questa trappola e finalmente riesco ad assumere la posa consigliata nei cartelli all’ingresso.
Di fianco a me un uomo che ha l’aria di essere uno sciatore provetto mi chiede “Quegli sci lì, come vanno?”
Beh, per uno che nel ’94 ha vinto la gara di fine corso lo sci che differenza vuoi che faccia? Quando c’è il manico, c’è il manico.
Non ho ancora capito se questi sci sono professionalissimi o scarsissimi, quindi non capisco se la domanda è quella che si farebbe a un esperto che sta indossando sci di grande fattura, oppure se il mio compagno di viaggio è semplicemente preoccupato per la mia incolumità con questa trappole ai piedi.
Batto un bastoncino sullo sci per togliere un po’ di neve e mostrare meglio la marca Atomic, come se avessi la minima idea di cosa voglia dire, magari è lo stesso significato di “Fiat”.
“Bene, vanno abbastanza bene”.

La seggiovia si alza a strapiombo sulla montagna che si alza anch’essa a strapiombo sulla valle. Sono a strapiombo su uno strapiombo e dondolo a ogni movimento di chiunque sia seduto su questa seggiovia e appeso come me. Tengo ben stretti i bastoncini, i guanti e controllo che lo zaino sia ancora lì, non vorrei perderlo e poi dovermi fare l’arrampicata fin quassù per recuperarlo.
Nel frattempo dalla neve emergono bastoncini, guanti e zaini persi da disattenti sciatori. Controllo che non ci sia qualcosa di vivo, magari si sono persi pure quello.
Suona il telefono.
Con imbarazzo guardo fisso davanti a me. Non ci penso nemmeno a provare a rispondere, se dovessi farlo perderei il telefono, i guanti, i bastoncini e cadrei anch’io nell’abisso che sta qui sotto. Il telefono continua a squillare.
Magari è un’offerta importante, qualcosa a cui non posso rinunciare… certo che se insistono così tanto deve per forza essere qualcosa di irripetibile e importantissimo.
Con un dito, senza muovere troppo il braccio, riesco a farmi largo nella tasca, apro quanto basta per scorgere lo schermo sempre tenendo stretti al petto i bastoncini.
Numero sconosciuto. Un cellulare.
Potrebbe davvero essere l’offerta della vita.
Lascio suonare. Non me la rischio e resterò povero per il resto della mia vita, ma io di certo non verrò a cercare il guanto, il bastoncino, lo zaino o il mio cadavere in questo strapiombo solo per aver risposto a una telefonata.

La seggiovia arriva fino in cima alla montagna e noto subito la straordinaria bellezza del luogo: ci sono ben due rifugi che servono la colazione. Scelgo il rifugio in discesa, più comodo.

All’interno trovo strudel, torta Sacher, altro strudel ma con dei colori diversi, fontane di cioccolata calda e una tanica con all’interno del liquido arancione.
Devo avere quel liquido arancione.

Mi dicono che quello è il leggendario “bombardino”. Ne ordine un calice.

Me lo servono dentro un bicchiere di carta. Però ci buttano sopra una nuvola di panna che straborda.

Zampetto con i miei scomodissimi scarponi da sci fino ai tavoli all’esterno e solo ora mi rendo conto di non sapere cosa sto per bere.

La degustazione del bombardino

Al colore appare di una decisa e intensa tonalità arancione ben visibile scostando lo strato di panna montata. Qualche riflesso rossastro e una consistenza fluida. Pare essere qualcosa di grande corposità.

Al naso punge. Soffoca. Sentori di uovo e cannella. Ma soprattutto alcol. Tanto alcol si alza dal bicchiere e si insinua nelle mie narici provate dal gelo. Arriva il brandy. Oh, il brandy. Quest’ultimo profumo mi fa sentire un lord inglese sulle piste da sci di Chamonix mentre aspetta il suo gatto delle nevi personale che lo venga a prendere per andare al golf club.

All’assaggio si presenta corposo, pastoso, denso, praticamente una vernice. Caldo, nel senso della temperatura. Tengo la bocca aperta per raffreddare la lingua ustionata e attendo per assaggiare di nuovo sperando che non mi si siano bruciate tutte le papille gustative e che ne sia rimasta almeno una sana.
Ancora caldo, questa volta i pochi gradi all’esterno del rifugio hanno mitigato la temperatura del bicchiere. Sentore di alcol. E basta. Tanto alcol. Forse c’è dello zucchero, ma di certo del brandy non c’è traccia. Poi arriva il sentore di tuorlo d’uovo come uno zabaione qualsiasi. Solo che questa specie di zabaione avrà 50 gradi di alcol.

Mi piace.

Mi getto sulle piste rinfrancato dal bombardino.

Non ricordo di avere gli Atomic rossi ai piedi e, non so se sia colpa loro, mi schianto contro una rete di protezione. Nessuno viene a salvarmi e quindi ne esco come una tartaruga dalla rete di un pescatore: cioè… male.

Carvo, piego, spazzanevo il giusto. Eccolo qua il ghepardo delle nevi del ’94.

Prendo piste sconosciute fino a seggiovie sconosciute. Dopo mezz’ora mi ritrovo dall’altro versante della montagna e non ho idea di come tornare indietro. Consulto la mappa che il 4G mi consente di avere a portata di mano e intanto penso che col 5G magari potrei teletrasportarmi, sempre che i poteri forti non mi fulminino il cranio solo per i loro loschi piani di dominio del mondo. Che poi cosa c’entro io col dominio del mondo devo ancora capirlo, certa gente si sopravvaluta, secondo me.

Per tornare all’albergo mi basta seguire la semplice pista azzurra che a vedere da qui è chiusa da una rete arancione. A fianco si apre uno strapiombo indicato da una freccia bianca su campo rosso che indica che quella è, per l’appunto, una pista rossa. Unica via per tornare a casa. Ah, se ci fosse il 5G a salvarmi e poi uccidermi… maledetti poteri forti, non potete darvi una mossa?

Discendo con la velocità di una cordata giù dal K2 la pista rossa e arrivo fino alla seggiovia di sotto. Non c’è sulla mappa. Mi sono perso. Diventerò uno yeti, dovrò vivere qui per sempre e mi ciberò di caribù e bombardino. Ci sono i caribù da queste parti?

Un nordico piemontese che passa di lì mi indica provvidenzialmente la strada per tornare a casa. C’è proprio una strada innevata, non una pista. Un viottolo largo due metri che secondo il nordico piemontese mi riporterà alla base. Lo ringrazio e lui mi risponde “figurati picciriddu”.
Qui parlano tutti con questo accento, magari mi sono perso e sono finito sulle piste da sci dell’Etna.

Affronto il viottolo in un’unica derapata, praticamente lo faccio tutto di fianco, non mi fermo ma almeno non accelero un granché.

Arrivo inaspettatamente al rifugio in cui ho bevuto il bombardino. Direi che me ne sono meritato un secondo.

La giornata di pioggia

Credevo che quando si mettesse a piovere in montagna non ci fossero grandi problemi a sciare visto che siamo tutti vestiti con materiale tecnico, tute impermeabili, guanti e cappelli. E invece scopro proprio oggi che tutto quello che ho addosso è sì impermeabile ma non poi così tanto. Quindi dopo 10 minuti sotto la pioggia, l’acqua passa come se avessi addosso una maglia di cotone, oltre a rendermi più pesante di 30 chili.

Mi strizzo i vestiti ed entro nel rifugio, strizzo l’occhio verso la barista “Il solito, grazie”.

La giornata di sole dopo la pioggia

Ieri ha piovuto e oggi invece c’è un bel sole. Quale migliore giornata per sciare come si deve?

E invece no perché se piove vuole dire che non nevica e se non nevica è perché fa caldo per la neve. E se fa caldo per la neve, beh, non c’è neve. Ma soprattutto l’acqua del giorno prima se l’è portata via tutta.

Le piste da sci sono un saliscendi di buche, rami affioranti, rocce nascoste e pare di affrontare le rapide con la canoa. Alla quinta buca in cui finisco dentro con gli sci e dai cui esco con una culata, decido che è il momento per dedicarmi a qualcosa di più semplice.

Entro nel rifugio, la barista mi chiede “il solito?”, faccio no con il dito. Ordino un bombardino, torta Sacher, strudel di mele e per dopo prenoto un caffè con amaro.

Seduto sulla mia panca nella terrazza del rifugio, panca che ormai è diventata mia per usocapione, mi sovviene che dovrei essermi portato anche una pargola dietro e che credo di aver abbandonato nelle mani della maestra di sci. Chissà se la piccina ha imparato a sciare. Glielo auguro di cuore.

Un’orda di bambini scende giù a uovo dalla pista rossa, fa lo slalom fuori pista fra gli alberi, derapa e inonda di neve gli anziani stesi al sole qui sotto la terrazza. La pargola è nel gruppo, la saluto dall’alto. Lei non mi vede, intenta a fare acrobazie di freestyle con i suoi compagni di corso che fino a due giorni fa non avevano mai messo gli sci ai piedi. Non hanno Atomic rossi ai piedi, non capisco come facciano ad andare così.

Il sole ormai sta per tramontare ed è il momento di tornare alla base, restituire gli sci e montare in macchina.

Torno indietro prendendo la seggiovia al contrario e restituisco i miei Atomic rossi intonsi, degni compagni di bevute di questi giorni sugli sci.

Arrivederci rifugio, arrivederci barista e arrivederci panca sulla terrazza. Alla nostra prossima grande avventura.

Rispondi

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: