Ho iniziato a scrivere per me. Facevo leggere le mie cose solo a una o due persone. Ho sempre pensato che prima o poi avrei pubblicato qualcosa, un libro, un racconto, articoli per giornali, riviste o blog. Prima o poi lo avrei fatto.
Poi qualcuno ha iniziato a dirmi che c’erano delle cose interessanti in ciò che scrivevo. Alcuni miei articoli vengono pubblicati su un blog di un professore conosciuto per caso e per cui avevo fatto dei lavori sui suoi siti e un bell’ articolone finisce addirittura su una sua rivista cartacea.
Inizio ad interessarmi a come migliorare la mia scrittura. Come progettare una storia, come migliorare lo stile. Finisco su un sito che mostra un elenco di quasi tutti i concorsi letterari italiani e mi iscrivo per gioco, senza starci tanto a pensare ad un concorso dalle parti di Treviso.
Mi richiamano dopo un mese. Sono in finale. Devo andare alla premiazione. Imbarazzatissimo mi reco in quel paesino, il mio racconto viene letto in pubblico, la gente ride divertita e durante il rinfresco ricevo complimenti “il tuo era il racconto più bello”. Quanto fosse vero non lo so, ma fa comunque piacere.
Arrivo terzo, mi porto a casa qualche soldo, 3kg di radicchio, un diploma e aggiungo a tutto questo un fine settimana in veneto all’insegna del Valpolicella e dell’ Amarone.
Forse scrivo davvero bene. Penso.
Mi ci metto di impegno e seleziono i concorsi non troppo lontani da casa mia. Vinco. Mi piazzo. Ne approfitto per girare un po’ l’Italia in zone che non avrei mai pensato di visitare, scopro bei luoghi che nemmeno pensavo esistessero o di cui pensavo tutto il peggio possibile (andate a Cremona che è davvero bella!).
Nel frattempo ricevo anche qualche delusione. Mi piazzo e ricevo segnalazioni di merito. Siccome voglio migliorare, leggo sempre le opere di chi si è classificato meglio di me. All’inizio noto stili molto eleganti, parole più forbite delle mie, linguaggi a volte anche aulici e ammalianti. A me non piace scrivere così, preferisco un linguaggio diretto e mi piace che qualcuno alla fine ci resti secco. Il lieto fine non fa per me.
Poi faccio più attenzione al contenuto.
Noto che in ogni concorso i racconti scelti trattano argomenti quasi standard. Si parte dai barconi di immigrati e dai palestinesi e si arriva a scene strappalacrime di violenza sulle donne e flashback sui ricordi da bambino.
Leggo di Tarek, Mohamed, Fatima e Amina. Leggo di Maradona e del Super Santos. La giuria annuisce durante la lettura e qualcuno si spella la mani per gli applausi. Leggo storie raffazzonate, senza capo né coda. Leggo dei soliti sbarchi sulle spiagge siciliane, di muri divisori fra due città, discriminazioni e botte.
Inizio a mettere insieme i pezzi e ad avere abbastanza esperienza per poter giudicare anche il lavoro degli altri. Mi rendo conto senza ombra di dubbio che a vincere sono sempre i soliti argomenti di cui sopra, indipendentemente dalla qualità dallo scritto. Non conta la storia, non conta l’originalità. Conta solo l’argomento. Più è “mainstream” e più ha possibilità di vincere.
Mi viene anche il sospetto che molti non leggano nemmeno buona parte degli elaborati. Me ne rendo conto quando in un concorso due sue tre dei premiati sono residenti nel luogo della premiazione.
Ne ho una mezza conferma quando ripenso a un mio romanzo, inviato con incoscienza, senza revisionarlo e con molti errori, viene premiato.
Ho la definitiva conferma quando scopro che noi finalisti di un concorso per racconti siamo in diciassette su
cinquantatré partecipanti totali.
Realizzo definitivamente che non esiste la fantomatica “giuria di qualità” quando vinco un sacco di soldi in un concorso e poi approfitto del rinfresco per chiedere al presidente di giuria “qual’è il criterio per assegnare premi così consistenti?” e lui tergiversa, balbetta, mi risponde che “è difficile” e che “sono tante le cose da considerare” e poi che “alla fine bisogna pur scegliere”.
Ergo, non c’è un criterio.
Origlio un dialogo fra la vincitrice di un altro concorso e la presidentessa di giuria. Il racconto faceva schifo, per fortuna non era nella categoria in cui ho partecipato io, era roba da incazzarsi sul serio. Una boiata che partiva da una fotografia sbiadita e finiva per parlare di un campo profughi palestinese, tanto per cambiare.
La presidentessa si complimenta con la vincitrice, “quanto mi è piaciuto il tuo racconto. So che non si dovrebbe fare, ma quando ho visto che parlava di fotografia ho pensato a mia figlia che ne è appassionata. Così ho preso il tuo racconto e l’ho messo in cima così che gli altri lo leggessero per primo. E quando abbiamo deciso, io ho detto subito che dovevi vincere. Oh, troppo bello, davvero.”
Per cui, come buon proposito per il 2019, ho deciso che non parteciperò più a concorsi letterari. Non ho voglia di farmi prendere per il culo. Potrei valutare la partecipazione solo a qualche concorso per romanzi in modo da avere un’etichetta da infilare nella quarta di copertina.
Ma anche no.